Ti sarà capitato di passare davanti a una vetrina spenta e pensare, quasi senza accorgertene, “un altro negozio che chiude”. Eppure, dietro quella serranda abbassata non c’è solo la crisi del retail, c’è un cambiamento profondo, una specie di corrente lenta che negli anni ha riscritto le abitudini, i quartieri e perfino l’idea di città. La verità che nessuno dice, o che si dice troppo poco, è che non si tratta di un singolo colpevole: è un incastro di fattori che, insieme, stanno producendo una vera desertificazione commerciale.
I numeri che non si possono ignorare
Secondo i dati diffusi da Confcommercio, dal 2012 in Italia sono scomparse oltre 140mila attività: circa 118mila negozi fissi e 23mila ambulanti. Non è un’onda, è una marea.
Dentro questo quadro c’è un dettaglio che fa impressione: più di 105mila negozi sfitti, e circa un quarto resta vuoto da oltre un anno. Il risultato lo vedi soprattutto nei centri storici e nei piccoli comuni, dove ogni chiusura pesa come un mattone tolto a un muro portante.
E lo scenario, se non cambia qualcosa, è ancora più netto: entro il 2035 rischia di sparire un negozio su cinque, un range stimato tra 114mila e 134mila imprese. Non è solo economia, è la possibilità concreta di quartieri che diventano meno abitati, meno frequentati, più fragili.
La “vera” causa: non è solo l’online
È comodo dire “è colpa dell’e-commerce”. È vero che gli acquisti online sono esplosi, ma la faccenda è più sottile, quasi come quando una crepa nel muro diventa visibile solo perché la casa è già sotto stress.
Le cause principali si incastrano così:
- Consumi stagnanti: se la spesa delle famiglie cresce poco, ogni scelta diventa più selettiva. Si rinvia, si confronta, si taglia.
- Cambiamenti nei comportamenti di spesa: oggi compriamo in modo più “spezzettato”, spesso più impulsivo, e con una ricerca continua del prezzo migliore.
- Boom dell’e-commerce: in 12 anni +114,9%, con circa 16mila imprese online in più.
In altre parole, non è solo che compriamo online, è che abbiamo imparato a comprare diversamente, e molti modelli di negozio non hanno avuto tempo, margini o competenze per adattarsi alla nuova digitalizzazione.
Chi sta soffrendo di più (e cosa prende il loro posto)
Alcuni settori sembrano colpiti come da una grandinata:
- Distributori di carburante: -42,2%
- Articoli culturali: -34,5%
- Commercio non specializzato: -34,2%
- Mobili e ferramenta: -26,7%
- Abbigliamento e calzature: -25%
E mentre certe insegne spariscono, altre avanzano. Nei centri urbani crescono:
- Farmacie (+12,3%)
- Telefonia (+10,5%)
- Affitti brevi (+170%)
Qui la trasformazione è quasi cinematografica: dove prima c’era un negozio “di fiducia”, adesso trovi un servizio rapido, un punto iper-specializzato o un appartamento che cambia ospite ogni tre giorni. La città resta in piedi, ma cambia pelle.
Le città più a rischio e l’Italia “a due velocità”
Lo studio segnala che i comuni medio-grandi del Centro-Nord sono tra i più esposti, con cali oltre il 30% in alcune realtà come Agrigento, Ancona e Pesaro. Al Sud, in media, il calo è più contenuto, ma spesso legato a emigrazione e a una penetrazione dell’e-commerce storicamente più bassa.
È un paradosso: dove l’online corre di più, la chiusura accelera, ma dove l’online corre meno, a frenare non è il commercio, è il territorio che si svuota di persone.
Cosa perdiamo quando chiude un negozio
Qui arriva la parte che “nessuno dice” abbastanza: un negozio non è solo vendite. È presidio, socialità, sicurezza.
Quando una strada perde luci e passaggio:
- diminuisce la percezione di sicurezza
- si indebolisce la rete di servizi di prossimità
- cala l’attrattività per residenti e visitatori
- si rompe una piccola abitudine sociale, il saluto, la chiacchiera, il “ti metto da parte quello che ti piace”
E nei piccoli centri il dato è ancora più duro: spesso c’è 1 apertura ogni 3 o 4 chiusure. È una spirale, perché meno negozi significa meno motivo per uscire, e meno persone in giro significa meno clienti.
Che cosa si può fare davvero (senza slogan)
Confcommercio insiste su una direzione chiara: rigenerazione urbana e un patto operativo tra Governo, Regioni e Comuni. Tradotto in misure concrete, il cuore è:
- recupero e riqualificazione degli sfitti
- politiche fiscali più eque tra canali fisici e digitali
- progetti di rilancio del commercio di prossimità
- strategie per riportare funzioni miste nei centri (abitare, lavorare, acquistare, vivere)
La crisi del retail, insomma, non è un destino inevitabile. Ma va guardata in faccia per quello che è: un cambio di epoca. E la serranda abbassata che noti distrattamente, domani, potrebbe essere il segnale più chiaro di quanto stiamo lasciando indietro, non solo come consumatori, ma come comunità.




